Il genocidio degli Armeni
La storia non si dissolve nel tempo
di Loretta Nucci

Il 24 aprile 1915, l'arresto di oltre duemila armeni di Istanbul, cittadini dello Stato ottomano, dà il via al genocidio degli armeni, a quella che l'ambasciatore americano Henry Morgenthau chiamò "la morte di una nazione"

Passano i venti -
ed i miei grani dolcemente si svegliano;
per le loro vene scorre un fremito immenso.
Giù dai fianchi verdeggianti del colle
passano mari.

Passano i venti -
e straripa, tanto s'infuria, il turgido campo
che morirà soffocato il capretto che vi pascola.
Per il grembo della valle ondeggiante
passano mari.

Passano i venti -
e si squarcia, si ricuce splendido
il manto sventolante del grano.
In mezza all'ombra, tra le faville di luce
passano mari.

Passano venti -
sotto le spighe, dove la luna ha stillato
il latte della sua anfora, ondeggiano i chicchi.
Dalle aie fino al villaggio, dal villaggio al mulino
passano mari.

Passano i venti -
e vibra di smeraldi il prato infinito.
Canta il passero sopra una spiga dondolante
mentre sotto di lui, del grano infuriato
passano i mari, passano i venti.


Questa poesia intitolata Mari di grano (appartenente alla raccolta il Canto del pane) è quasi un testamento che ci parla del destino atroce del popolo armeno che si compì attraverso lo sterminio programmato di circa un milione o un  milione e mezzo di persone. In mezzo a questa moltitudine di morti, a condividere il loro destino di crudeltà e di abbandono, c'è una grande poeta: Daniel Varujan.
La storia di Varujan, di cui ogni bambino armeno conosce a memoria qualche poesia, è esemplare di tragedia e passione, e si conclude con la morte a trentun anni, in un giorno d'agosto del 1915, ucciso a pugnalate - dopo essere stato depredato e mutilato - in un posto qualsiasi di quella sterminata campagna anatolica che aveva tanto amato.

I mari di grano che Varujan descrive qui crescevano, infatti, in una nazione che egli sa prossima al martirio - ricordiamo che aveva il Canto in tasca quando fu deportato e ucciso - una nazione quindi simile al "capretto" soffocato dal grano, che al grano stesso cresceva libero. Eppure benedice il grano, e la sua benedizione dà il suo consenso al martirio. Come il capretto nella poesia, e come quello morto al posto di Isacco, egli muore in nome del Pane di domani.

L'Impero ottomano e il genocidio degli armeni
Che cosa stava avvenendo nell'Impero ottomano nei giorni in cui l'assedio di Gallipoli e lo sbarco delle truppe anglo-australiane-neozelandesi sembrava mettere in pericolo l'esistenza stessa dell'impero, travolto anche dalle vittorie simultanee degli eserciti russi sul Caucaso?

Il 24 aprile 1915 l'arresto di oltre duemila armeni di Istanbul (leader della comunità, intellettuali, dirigenti politici, uomini d'affari, giornalisti, studenti, funzionari pubblici), cittadini dello Stato ottomano, dà il via al genocidio degli armeni, a quella che l'ambasciatore americano a Istanbul Henry Morgenthau chiamò "la morte di una nazione".

Un mese dopo, il 24 maggio, le grandi potenze (Gran Bretagna, Francia, Russia) rilasciarono contemporaneamente a Londra, Parigi e Pietrogrado una dichiarazione congiunta che diceva:

"Di fronte a questo nuovo crimine della Turchia contro l'umanità e la civiltà i governi alleati mettono pubblicamente al corrente la Sublime Porta che essi riterranno personalmente responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi massacri".

Il 27 maggio 1915, tre giorni dopo, il governo ottomano (diretto dal triunvirato di Tal'at Pasha, Enver Pasha e Djemial Pasha che avevano preso il potere nel 1913) promulga la "Legge temporanea di deportazione" che legittima e legalizza le deportazioni ed i massacri degli armeni che sono in corso dalla fine di aprile e che conosceranno in giugno e luglio uno sviluppo ulteriori.

La Legge temporanea di deportazione del 27 maggio 1915 serve a dare una parvenza di legalità a tutta questa gigantesca operazione. 
Con essa

  • si autorizzano i comandanti dell'esercito a procedere alla deportazione,
  • si autorizza la liquidazione dei beni dei "singoli individui e degli enti dotati di personalità giuridica trasferirti altrove", affidando ad alcune commissioni il compito di disporre la vendita.

Il governo precisa in un articolo che "le somme così ottenute sono lasciate in deposito nelle casse del Ministero delle Finanze a nome dei loro legittimi proprietari". 
Ma i legittimi proprietari non torneranno mai dal trasferimento verso "l'altrove".

La deportazione equivale né più né meno all'annientamento. 
Essa si svolge in due fasi che è bene distinguere:

  • la deportazione vera e propria con i massacri che l'accompagnano fra maggio e settembre del 1915,
  • il successivo internamento dei superstiti nei campi di concentramento della Siria settentrionale e della Mesopotamia.

Due settimane dopo, il 10 giugno, una nuova "Legge temporanea di espropriazione e confisca" rende evidente l'intenzione politica e militare che sta dietro ai massacri e la deportazione verso il deserto della Siria.

La sequenza delle deportazioni colpisce per la rigorosa metodicità e rapidità della loro esecuzione.
Facendo ampio uso dei moderni sistemi di trasmissione delle informazioni (telegrafo) e di comunicazione (ferrovia), l'ordine generale di deportazione tocca:

  • in maggio in Cilicia,
  • tra giugno e luglio nei 6 vilayet (distretti amministrativi) orientali, quelli di Trebisobnda, Erzurum, Van, Bitlis, Harput e Sivas,
  • in agosto e settembre le regioni occidentali (Angora - la futura Ankara -, Adabazar, Bursa) e sudorientali (Djebel Musa, Urfa e Aintab),
  • infine in ottobre Adrianopoli.
Le due leggi rendono chiaro il disegno di espellere - e non temporaneamente, come si presentano entrambi i decreti, ma definitivamente - gli armeni dalle zone di loro insediamento storico, sgomberando del tutto dalla loro presenza l'Anatolia centrale e la Cilicia.

Il numero più grande delle vittime, calcolate tra un milione e un milione e mezzo, si ha tra il 1915 e il 1916, ma le violenze continuano anche negli anni successivi fino al termine della Prima guerra mondiale.

Molti vengono uccisi nei villaggi (soprattutto gli uomini); altri durante il viaggio verso il deserto; altri ancora verranno decimati dalla fame e dalle malattie nel corso della deportazione e nei campi di concentramento dove vengono raggruppati i superstiti.

A commettere le violenze sono gli uomini dell'Organizzazione speciale, una forza paramilitare creata dal Comitato Unione e progresso (il partito dei Giovani Turchi al governo), ma anche soldati dell'esercito e bande  di predoni curde o turche. Il tutto con il beneplacito e l'organizzazione dei vertici politici e militari della capitale e delle province dove vivevano gli armeni.

A cento anni dal genocidio
A cent'anni di distanza da uno dei massacri più terribili della storia, che già all'epoca suscitò orrore e riprovazione, anche se le Grandi Potenze non misero in atto alcun piano per evitarlo o fermarlo, è ormai comune il riconoscimento che si trattò di genocidio, secondo la definizione che ne venne data nel 1948.

Raphael Lemkin, il giurista che coniò il nuovo termine e inventò il nuovo concetto nel 1944, ricordò spesso nei suoi scritti l'importanza che ebbero, nella sua formazione e nella determinazione a inserire il genocidio tra i nuovi crimini del diritto internazionale, i massacri degli armeni avvenuti nel corso della Prima guerra mondiale, che la pace di Parigi non era stata capace di sanzionare pubblicamente con un processo internazionale.

Solamente la Turchia, che ha creato e rafforzato la propria identità politica sulla continuità con il nazionalismo dei Giovani turchi, si ostina a definire gli armeni "vittime della logica di guerra" che prevaleva all'epoca; anche se sempre più numerose sono, nella società civile turca, le voci di chi combatte questo negazionismo ufficiale e chiede una discussione pubblica su un passato di cui in Turchia non si è mai potuto parlare apertamente.

La storiografia di origine armena ha avuto, a partire dagli anni Ottanta, il merito invece di aver fatto uscire il ricordo del genocidio armeno dall'ambito ristretto della diaspora o dalle preoccupazioni politiche del riconoscimento internazionale, facendolo diventare oggetto di ricerca storica in senso pieno e momento di recupero organico sia di una memorialistica sempre più vasta, sia  di una documentazione archivistica differenziata e problematica (per la chiusura degli archivi turchi e per il dibattito sull'autenticità di tutte le fonti disponibili).

Attorno ad alcuni autori si è costruito nel tempo una sorta di canone storiografico e di interpretazione egemone di parte "armena", capace di imporsi lentamente alla più vasta opinione pubblica e di sollecitare ricerche e studi in ambito accademico e scientifico.

È soprattutto nei confronti di questa storiografia e del suo autore più noto, Vahakn N. Dadrian, che hanno inteso polemizzare sul terreno scientifico storici più giovani e di differente provenienza, giungendo a conclusioni che si possono sostanzialmente condividere e che convergono nelle riflessioni di Taner Akcam, Ronald Suny, Hilmar Kaise, Donald Bloxham.

L'aspetto centrale della distanza critica da storici come Dadrian o Ternon, risiede nella presunta "connessione" tra i massacri degli anni Novanta del XIX secolo e il genocidio del 1915-1916.
Una connessione che per Dadrian ha l'aspetto di un legame indissolubile e di stretta continuità e che individua in una presunta "cultura" e "mentalità" omicida e in una "cultura fondata sul massacro" prevalente nel mondo turco il fulcro esplicativo del perché del genocidio.

Questa ipotesi viene contestata in nome di rilevanti differenze nell'ideologia dei responsabili delle violenze, nella dinamica politica e nel contesto internazionale in cui esse avvennero.

Un primo momento che segna una forte discontinuità è individuato nell'ultimo quarto del XIX secolo. È da quel momento che, a sempre più profonde trasformazioni demografiche e sociali, accompagnate da una polarizzazione etnica crescente, si affianca la creazione di partiti politici nazionalisti e rivoluzionari (in sintonia con quanto avviene nel resto d'Europa) e una decisa internazionalizzazione della questione armena.

Anche per Dadrian, gli anni che precedono i massacri hamidiani del 1894-1896 sono un periodo di trasformazioni sociali rilevanti: ma queste sono viste come il terreno entro cui si realizza una mentalità anticristiana e antiarmena che prende le forme di una volontà omicida generalizzata che fa le sue prove a fine secolo e si organizza per  trovare l'occasione adeguata che giungerà con lo scoppio della guerra  mondiale.

Nelle interpretazioni storiografiche più mature e recenti invece è l'intreccio tra le diverse trasformazioni (statali, partitiche, ideologiche, sociali e demografiche) a costituire la spiegazione delle violenze del 1894-1896.

Enfatizzare le trasformazioni strutturali della società e dello stato ottomano non fa correre il rischio di proporre una diminuzione delle decisioni del potere ottomano e delle sue responsabilità politiche e morali nel genocidio.

Come non avviene con il richiamo al "contesto" di guerra nel caso del genocidio, e delle trasformazioni sociali e demografiche per i massacri hamidiani), anche se esso è stato a volte l'arma del riduzionismo quando non del vero e proprio negazionismo.

La spiegazione storica, tuttavia, si nutre proprio della completezza della complessità degli avvenimenti e non può ignorare i tanti elementi che concorrono a comprendere perché alcuni eventi siano avvenuti proprio in alcuni momenti e non in altri e con caratteristiche nuove e originali.

Nel caso del genocidio - di quello degli armeni, ma il discorso può essere generalizzato ad altri casi - l'individuazione e costruzione del gruppo (nazionale, etnico, religioso, ecc.) considerato Altro, Nemico, da sradicare ed eliminare in qualche modo perché considerato pericoloso, è certamente il momento iniziale: e questo non può che comportare una politica di odio e disumanizzazione del gruppo in questione.

Questo processo, che conosce una radicalizzazione e accelerazione solo in  determinate circostanze, prende spunto ed utilizza anche le antiche e tradizionali incomprensioni e opposizioni che tra gruppi si sono avute un tempo in un determinato territorio.

Come non si può ascrivere all'antigiudaisnmo storico e neppure all'antisemitismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento la causa principale della politica sterminatrice razzista del nazismo - da ricercare invece nel nazionalismo biologico e nella politica di antisemitismo radicale ed estremo oltre che nella logica dell'espansionismo e della guerra -, così è importante per il genocidio armeno individuare i momenti e gli aspetti costitutivi che concorrono a una possibilità concreta di realizzare il genocidio.

E questi aspetti sono: 

  • la vittoria di un nazionalismo radicale ed estremo nell'ambito del movimento dei Giovani turchi (che sconfigge la fazione liberale e costituzionale ed anche i nazionalisti più moderati);
  • la crescente mobilitazione delle minoranze rivoluzionarie armene;
  • l'ulteriore perdita di territori dell'Impero con le guerre balcaniche e il timore di venire smembrati da un accordo delle grandi potenze;
  • il formarsi di un partito unico (il Comitato Unione e Progresso) e di un movimento paramilitare con forti connessioni nell'esercito regolare (l'Organizzazione segreta);
  • le vicende della guerra che portano alle vittorie russe sul fronte del Caucaso e alla minaccia britannica sui Dardanelli.

Sullo sfondo, le trasformazioni demografiche e sociali dell'Anatolia, dove i profughi "turchi" delle zone perdute dall'impero ottomano costituiscono un forte gruppo di pressione per sostituire economicamente e stanzialmente le minoranze esistenti, di cui la più rilevante è quella armena.

Se da una parte l'analisi e l'approfondimento del genocidio armeno non possono che continuare con le regole della ricerca e dell'approccio critico, anche sul versante del problema politico-morale del riconoscimento del genocidio bisognerebbe individuare quali sono le forme migliori e più efficaci non solo del rispetto della verità storica, ma perché questa possa divenire parte crescente della coscienza collettiva della società turca.


In questo doppio obiettivo risiede, oggi, la riflessione più importante che la tragedia degli armeni del primo Novecento ci consegna.

Per chi vuole approfondire
  • Vahakn N. Dadrian – Storia del genocidio armeno, Ed. Guerini e Associati, Milano2003.
  • Claude Mutafian - METZ YEGHÉRN Breve storia del genocidio degli armeni, Ed. Guerini e Associati, Milano 2001.
  • Marcello Flores – Iil genocidio degli armeni, Ed. Il Mulino, Bologna 2006.
  • Yves Ternon – Gli armeni-1915/1916 Il genocidio dimenticato, Ed. Rizzoli, Milano 2003.
  • Taner Akçam – Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica, Ed. Guerini e Associati, Milano 2006.
  • Henry Morgenthau - Diario 1913-1916 Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni, Ed. Guerini e Associati, Milano 2010.
  • Marco Impagliazzo – Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), Ed. Guerini e Associati, Milano 2000.
  • Antonia Arslan - La masseria delle allodole, Rizzoli, Milano, 2004.
  • Alberto Rosselli – L’olocausto armeno, Ed. Solfanelli, Chieti 2007.
  • Franz Werfel - I quaranta giorni del Mussa Dagh, Corbaccio, 2007.
  • Daniel Varujan - Il canto del pane (a cura di Antonia Arslan), Ed. Guerini e Associati, Milano, 2008.
  • Gabriella Uluhogian - Gli Armeni, Il Mulino, 2009.
  • Edgar Hilsenrath - La fiaba dell'ultimo pensiero, Marcos y Marcos, 2006.
  • http://www.genocide-museum.am/eng/index.php



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