L'importanza dei viaggi della memoria nella didattica della storia SML ne parla con Matthias Durchfeld e Carlo Greppi
Storia e Memoria Lab si confronta
sull'importanza dei viaggi della memoria con Matthias Durchfeld e
Carlo Greppi
“Solo ora che siamo venuti qui, che
abbiamo visto con i nostri occhi possiamo finalmente capire cos’è
stata la Shoah”.
Tra le considerazioni che i giovani
esprimono al termine di un viaggio studio in un campo di
concentramento nazista – e in particolare dopo aver visitato il
complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau – questa è una
delle affermazioni più frequenti.
- Questo tipo di riflessione impone allora un primo, importante, interrogativo: partecipare a un viaggio della memoria, visitare uno dei luoghi in cui la Shoah è stata perpetrata è effettivamente fondamentale per comprenderla?
- E se il viaggio riveste una parte così importante nel tentativo di conoscenza, quali elementi deve contenere per assolvere al meglio il suo compito?
- Ma se invece i viaggi della memoria non sono una componente essenziale di conoscenza, a cosa si deve il loro successo e il loro ritenersi quasi irrinunciabili?
Storia e Memoria Lab ha rivolto queste
domande a Matthias Durchfeld, responsabile Viaggi della Memoria
Istoreco, Reggio Emilia e Carlo Greppi, dottore in Studi storici e
autore di L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il
lager (Donzelli 2012).
Matthias Durchfeld
Credo proprio di sì, che visitare
uno dei luoghi in cui la Shoah è stata perpetrata è effettivamente
fondamentale per comprenderla. I luoghi sono delle fonti
molto importanti e sono dei veicoli importanti.
Certo non è che visitando una volta un
luogo della Shoah… “click!”… il giorno dopo hai capito tutto.
Dipende anche se sei un cittadino medio che una volta nella sua vita
studia per qualche giorno la Shoah o se sei uno studioso che per anni
e anni tenta di capire.
Per lo studente che per la prima volta
si occupa della Shoah il luogo è un riferimento fisico
importante. La storia diventa più materiale, reale, terrestre,
europea, nostra. Non è più una storia che gira da qualche parte
nello spazio. È qui.
Visitando con calma un luogo, o meglio
ancora, per chi studia la Shoah in modo più approfondito, tante
volte, si ha modo di farsi un'idea della capillarità dell'azione,
della vastità del crimine, dello svolgersi materiale della
deportazione. I luogo del delitto ci parla anche del delitto.
Il viaggiatore deve essere preparato,
cioè deve saper leggere, deve saper trattare il luogo, metterlo in
relazione con altre fonti. Così come non sono esaurienti le altre
fonti, certamente anche il luogo da solo non spiega tutto. Un buon
Viaggio della Memoria deve offrire una varietà di fonti ed occasioni
che si completano a vicenda.
Devo inoltre tener presente che il
viaggio è un momento dello studio. Non è l'unico. Con il
viaggio né voglio né posso trasformare lo studente in esperto della
Shoah o in militante antirazzista. Il Viaggio della Memoria
spesso è l'inizio di un percorso, non il culmine.
Ripeto, io credo che i luoghi siano una
componente essenziale di conoscenza. Prima o poi è importante
conoscere i luoghi, la loro geografia, la loro disposizione, la loro
organizzazione. Spesso documenti cartacei e testimonianze sono
verificabili grazie alla conoscenza dei luoghi.
Non solo dal punto di vista della
conoscenza, ma anche dal punto di vista della motivazione la
visita di un luogo storico è importante perché può
sollecitare interesse verso la storia in persone che non entrerebbero
mai in un archivio classico o in una biblioteca specialistica.
Poi ci sono certamente i viaggi
superficiali, la visita frettolosa, la ricerca dell'emotività e del
brivido. Turismo puro che in realtà ti allontana dalla comprensione.
La commercializzazione e quindi la banalizzazione della Shoah sono un
rischio. Ma bisogna anche stare attenti a non diventare troppo
moralisti o troppo arroganti perché solo noi sappiamo come studiare
la storia e come visitare un luogo storico.
La nostra parte è quella di lavorare
bene, con tranquillità, combattere l'ignoranza e cercare di
coinvolgere sempre, anche in prima persona, chi viaggia con noi,
chiedendogli di avere un ruolo, di fare la sua parte. Sarà poi anche
il tempo a far sì che un pensiero nato durante un Viaggio della
Memoria possa sedimentarsi e maturare.
Carlo Greppi
Io credo, e l'ho già detto in diverse
occasioni, che nessuno di noi dovrebbe credere che esistano
delle “formule” esatte, e purtroppo in questo mondo di storie e
memorie si sentono spesso espressioni come “Non si può andare
in viaggio a x se non si conosce y”; “Si deve prima visitare
x e poi y”, etc. Diffido sempre delle asserzioni dogmatiche, del
pensiero assoluto.
Anche per questo non penso che
partecipare a un “viaggio di memoria” sia fondamentale per
provare a comprendere la storia della Shoah, ma è senza dubbio
un'esperienza immersiva che ci avvicina – i ragazzi e noi con loro
– anche emozionalmente a quanto troppo spesso viene studiato a
partire da un arido nozionismo scolastico. Non credo ci si debba
preoccupare esclusivamente di quante e quali informazioni devono
transitare, ma anche di come questo passaggio di conoscenze
avviene e può avvenire. Di come sappiamo raccontare la storia. Se
dall'altra parte non c'è interesse, significa che – almeno in
parte – abbiamo sbagliato qualcosa noi.
Proprio questa mattina, andando verso
la stazione di Piacenza, ho visto sul muro di una scuola una scritta
a caratteri cubitali: “Dimentico, però meglio vivere che
ricordare”.
Non so se questa scritta abbia una
qualche relazione con la Memoria che in questi ultimi anni è stata
troppo spesso scritta con la “m” maiuscola (e questo genere di
maiuscole, ricordiamolo, sono un appannaggio della cultura di
destra), ma mi sono sorpreso a pensarlo. Ho pensato a quanto il mondo
adulto abbia sacralizzato, in questi anni, la memoria della Shoah e
in generale delle vittime dei fascismi (ma non solo), a quanto abbia
imposto a figli e nipoti un generico “dovere della memoria”,
formula che la semiologa Valentina Pisanty ha definito “vagamente
intimidatoria”, senza preoccuparsi di quanto questo interessasse
alle “giovani generazioni” e sul perché avrebbe dovuto
interessare loro.
Il tanto ripetuto “mai più” non
può essere una necessità di chi ancora deve immergercisi, credo, ma
è un obiettivo da parte di chi propone questa memoria, ed era anche
l'obiettivo esplicito del Giorno della Memoria, nella cui legge
istitutiva leggiamo (all'art. 2) che “sono organizzati cerimonie,
iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di
riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado,
su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e
politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro
dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia
nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non
possano più accadere”.
Un anno e qualche mese fa, nel Giorno
della Memoria 2014, e chi legge le pagine culturali dei giornali se
ne sarà accorto, tra gli “addetti ai lavori” ci si è finalmente
iniziati a porre la questione se questo “abuso di memoria” sia
producente o controproducente, dal momento che capita che i ragazzi
(e anche molti adulti) siano diventati insofferenti alle litanie
memoriali.
Eppure negli ultimi anni abbiamo
registrato un crescente interesse verso i viaggi nei “luoghi della
storia” (come mi verrebbe da chiamarli), proprio perché si scende
su un altro terreno: quello dell'esperienza.
Camminare nell'immensità di Birkenau,
con o senza neve, significa entrare in contatto con il proprio
immaginario, confrontare ciò che stiamo vedendo e provando con ciò
che ci saremmo aspettati di provare e vedere, scoprire che esistono
altri sensi, che l'aria fredda la stiamo respirando e che intorno a
noi sentiamo il calore di un gruppo che sta vivendo un'esperienza
complementare alla nostra. Andare fisicamente nei luoghi, anche in
quelli presenti solo in maniera sfumata nelle nostre aspettative
esperienziali, significa fare i conti con l'idea che abbiamo del
nostro passato, delle tracce che ha lasciato, e delle memorie che su
quelle tracce l'umanità sa costruire.
E inoltre, per molti ragazzi il
“viaggio della memoria” (il viaggio di memoria nei luoghi della
storia) è a tutti gli effetti un viaggio di formazione, con tratti
mitici, di cui hanno sentito i racconti di fratelli maggiori, amici,
compagni di scuola. Loro sanno – e con questa certezza si devono
confrontare – che sarà un'esperienza indimenticabile. Si aspettano
che sia così. Perché viaggiare lo è spesso, se non sempre; perché
a diciotto anni lo è ancora di più; perché viaggiare in gruppo a
quell'età è un'esperienza totalizzante, che li fa sentire completi,
vivi. È capitato a tutti noi, in viaggio di maturità, o in Erasmus,
di renderci conto di essere diventati uomini, o donne, di essere
parte di un mondo entusiasmante, di essere in un altrove tutto
da scoprire.
Quello che non si aspettano sempre,
anche se è stato detto loro, è che “toccare con mano” (come
dicono sempre) i luoghi della storia lascerà un segno indelebile
nelle loro vite. Saremmo dei formatori distratti se non notassimo –
e non sottolineassimo – che molti, quando poi chiediamo loro di
condividere i loro pensieri ed eventualmente le loro emozioni,
scrivono o dicono frasi come quella che hai citato nella domanda
(“Solo ora che siamo venuti qui, che abbiamo visto con i nostri
occhi possiamo finalmente capire cos’è stata la Shoah”) o del
tipo “fino a ieri pensavo che la storia fosse quella che c'era sui
libri di scuola”; “oggi ho imparato cose che neanche mille libri
di storia mi avrebbero saputo insegnare”; e via dicendo.
Il fatto che la maggior parte di loro
non abbia mai letto un libro di storia – un saggio, intendo – non
deve ingannarci, credo, e farci prendere sottogamba questo genere di
affermazioni. Il loro immaginario è fortemente strutturato su un
consumo culturale altro, di finzione – il cinema, innanzitutto –,
e prima di un viaggio di memoria spesso loro si riferiscono a questo
consumo, quando pensano a ciò che gli si propone di andare a vedere.
L'Europa di settant'anni fa è un altrove che possono conoscere sulla
base dei loro consumi e di ciò che hanno eventualmente imparato a
scuola o attraverso gli altri “agenti” preposti alla formazione.
Questo altrove, loro a volte credono di conoscerlo, e altre
volte sanno di non conoscerlo. E si aggrappano alle immagini che
hanno in mente, perché non vogliono saltare nel vuoto.
Capita a ciascuno di noi, credo. Quando
si finisce per caso a parlare di argomenti che non conosciamo o
conosciamo molto poco il nostro immaginario cerca un appiglio. E
spesso quell'appiglio è in un film che abbiamo visto, in un romanzo,
in una pagina web in cui ci siamo imbattuti per caso – se non lo
facciamo in diretta, presi dall'ansia di sapere il più possibile
subito.
Ecco, grazie ai “viaggi della
memoria” e a un numero incalcolabile di esperienze analoghe che
andrebbero censite e raccontate, i luoghi della storia entrano a
gamba tesa in questo immaginario. In maniera inaspettata, per molti.
Da quindici anni a questa parte –
dall'istituzione del Giorno della memoria, il 20 luglio del 2000 –
i luoghi sono diventati degli “agenti” anche loro, dei
costruttori di immaginario, secondi solo, forse, alla scuola e al
cinema. Stiamo parlando di centinaia di migliaia di
studenti che in questi anni hanno viaggiato verso Auschwitz o verso
altri memoriali che ricordano l'universo concentrazionario nazista.
Il mercato culturale non arriva in
maniera uniforme a questi ragazzi, le celebrazioni istituzionali o i
minestroni televisivi li sfiorano appena, e solo una parte di loro
frequenterà università umanistiche dove forse affronterà
nuovamente questo tema. Per queste e altre ragioni, noi che li
accompagniamo sui luoghi abbiamo davvero una grande responsabilità,
con i pro e i contro che comporta il poter entrare come degli zii nel
mondo della scuola dove i genitori sono gli insegnanti, che conoscono
gli studenti perché stanno con loro quotidianamente, per anni.
Mi chiedi quali elementi deve contenere
il viaggio di memoria per assolvere al meglio il suo compito.
Naturalmente nel mio lavoro e nel lavoro che faccio con i compagni di
viaggio dell'associazione Deina mi pongo continuamente questa
domanda. Ed è ovvio che ci diamo delle risposte, che di anno in anno
ripensiamo, limiamo, o cestiniamo per ricominciare. Penso che sia
tutta una questione di metodo, che sia un dovere deontologico di chi
insegna – di chi deve lasciare un segno – partire
dall'immaginario di questi ragazzi, smontare le trappole del senso
comune o di un sapere aggrappato al mondo archetipico e spesso
manicheo della finzione: i buoni e i cattivi; il salvatore, la
vittima, la spia, il carnefice. A costo di partire proprio dalla
finzione, per complicare il nostro scenario mentale, per inoltrarsi
in quel terreno appassionante che è la storia – lo studio
dell'uomo nel tempo.
Cosa sanno questi ragazzi della
gradualità dei processi storici, se spesso ci dicono che la storia
viene ancora studiata come un elenco di date, eventi e personaggi?
Cosa sanno delle singole vicende umane che la popolano? Che idea
hanno di temi storiografici cruciali, come il letale intreccio tra
consenso e dissenso nell'ascesa dei fascismi in Europa? Si pongono la
domanda se lo sterminio venne ordinato dall'alto o se fu (anche) il
frutto dello spirito di iniziativa degli “uomini comuni” che
partecipavano?
Credo che sia fondamentale partire da
queste e altre domande, per costruire un percorso tarato soprattutto
sulla loro sensibilità, usando una pluralità di materiali e di
metodi che li coinvolga in un confronto costante nel quale possano
esprimersi.
E credo ancora più fortemente che un
viaggio di memoria su un luogo della storia debba arrivare non a
fornire delle risposte ma a far sì che i ragazzi sappiano porsi
sempre nuove domande, e possano intravedere le tante strade che ci
portano a provare a formulare risposte.
Credo che occuparsi di storia e di
didattica della storia significhi anche e soprattutto questo.
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